Bon Appétit

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  1. Lato-Tibby
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    barzellette.

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    Ero incuriosita da quella ragazza coi capelli rossi, di un colore non vicino al ramato come le tipiche capigliature irlandesi, ma più scuro, avvolgente. Mi ricordò Jean Grey, una mutante di cui mi avevano parlato quando ero piccola i miei genitori, mostrandomi una sua foto probabilmente presa da un annuario passato della Xavier's School.
    La prigioniera possedeva lo stesso colore di capelli e lo stesso candore del viso dell'eroina, anche se gli occhi, quelli no, erano diversi: sgranati, azzurro vivido, molto tondi ed espressivi; nonostante certo non si potesse cogliere molta gioia dentro di essi in quell'ambiente. Mi strinsi nelle spalle, allungando una mano per afferrare il mio cartone del latte ed aprirlo.
    Del resto chi è felice qui dentro? Pensai. Solo io, talvolta, dopo che qualche sogno positivo veniva ad allietarmi nella notte fredda all'interno della mia cella, o dopo che incontravo Robert Dawson, il poliziotto buono. I nostri incontri si erano fatti sempre più rari, però, ed una luce di dolore animava il suo sguardo quando incontrava la mia figura. In fondo deve sentirsi deluso per ciò che ho fatto, ha riposto fiducia in questa piccola bambina dalla dritta frangia corvina ed in cambio io ho cercato di uccidermi. Forse mi sta evitando... Forse sotto sotto Kaya Runciter è anche questo, una manipolatrice che per ottenere qualcosa è disposta ad impersonare ruoli che non le appartengono. Quest'idea di me da un lato mi inorridiva, dall'altro quasi si poteva dire mi inebriasse; dopotutto avevo sempre desiderato affermare la mia indole ri-bel-le. Fragilità non significava debolezza. Fragilità era purezza, certo, ma poteva essere anche oscurità.

    Oh - esclamai quando la prigioniera più grande mi rispose - Mi dispiace. È tanto brutto l'isolamento?

    C'era sempre un tono gentile, innocente sul fondo delle mie parole. Non era edulcorato, non si trattava di finzione, credetemi. Kaya Runciter poteva essere molte cose, ma doppiogiochista mai. Non faceva parte del mio carattere eludere le impressioni altrui, il mio sguardo velato viveva il futuro e rimandava indietro nel presente un'immagine fantascientifica, artificiale, come se non fossi mai stata umana. Come se fossi un androide che sogna pecore elettriche, giusto per citare il titolo di uno dei miei libri preferiti. Buffo che mi chiamassi Runciter, a ben pensarci, proprio come uno dei personaggi di Philip Dick. Forse tutto quello che stavo vivendo era irreale, ed io non esistevo davvero, ma nascevo solamente dalla penna di uno scrittore. Ecco, mi piaceva vederla in quel modo: io non ero realmente una prigioniera, io ero la protagonista di un romanzo di fantascienza. Non potevo fuggire dal Saint Stan perché la prigione era l'ambientazione della mia storia... È molto più semplice vederla così, non trovate?
    Immaginare ti aiuta a sopravvivere e quello, perlomeno, le assillanti luci verde acido non potevano togliermelo.

    Kaya Runciter, matricola B-K402. Ma puoi vederlo dal mio cartellino, vedi? - le risposi, indicando il bedge affisso sulla mia divisa con la mano sottile - Anche se è bello pensare di non essere in prigione e chiederlo al posto che leggerlo. Tu come ti chiami?

    Terminai, sorridendole con quel mio modo di fare etereo, inconsistente. Avrei potuto anche io aguzzare la vista e leggere il cartellino identificativo della rossa ragazza, che tutti noi eravamo costretti ad indossare in ogni momento della giornata. Ma era tanto sbagliato provare a fingere, in quel luogo artificiale e costruito, una conversazione normale, ogni tanto?


    Edited by Lato-Tibby - 21/7/2016, 10:47
     
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