Bon Appétit

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    Deirdre C. FitzGerald - An Dílinn -
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    « Dio è nella pioggia. »


    Erano due anni e mezzo che passavo le mie giornate nella solitudine quasi più totale. A parte due parole schifate scambiate con i carcerieri e qualche dialogo più alto con Il Gran Bastardo quando cercava di capire "che cosa" fossi, la mia vita girava nel totale mutismo, nel totale silenzio. Avevo imparato ad amarlo come se fosse parte di me, il silenzio. Una volta avevo letto, da qualche parte, che "Il silenzio è la pace che ritorna dopo la guerra che ha fatto detonare il mondo". Bello vero? Poetico.
    Ironico che vedessi la poesia in una cella asettica colma di libri che avevo letto e riletto, che ormai conoscevo a memoria, che, in pratica, erano la mia unica ancora di salvezza in questo mondo controllato in modo così sbagliato.
    Avrei potuto fuggire probabilmente. Paradossalmente la mia cella, proprio perché isolata, era un punto cieco in molte telecamere, era un luogo di riparo più che di prigionia. Ma se fossi fuggita ora cosa avrei fatto?
    Potevo andare alla Xavier, certo, ma non era quello che volevo. Io volevo ristabilire l'ordine. Ma l'ordine fatto con il cervello non con la rabbia cieca, quella creata dalla paura e dalla vendetta.
    Erano giunte voci anche lì, in isolamento, riguardo ad un fantomatico mutante chiamato Intrigo, estremamente potente, che stava creando una Resistenza contro gli umani. Oh sì, bella idea. Ma i risultati erano ben lungi dall'essere evidenti. E non mi piacevano. Credevo nella lotta per la sopravvivenza ma studiata a tavolino, non esclusivamente pensata per massacrare e distruggere gli esseri umani. Dopotutto la mia famiglia era tutta "normale".
    La mia famiglia... mi spuntò un sorriso sghembo pensando a mia sorella, ai miei genitori, al nostro cane, alla nostra splendida dimora. Ma tornai seria quasi subito, non potevo farmi prendere dai sentimentalismi.
    Sentii la porta della cella aprirsi ed alzai lo sguardo su Charles, aguzzino da sei mesi, giovane, poco incline alla vera violenza fisica, totalmente terrorizzato dai mutanti.
    Detenuta vieni, ti accompagno in mensa.
    Non potei esimermi dal guardarlo stupita. Era troppo presto. Ormai riuscivo a scandire le ore abbastanza bene (anche questo più per non impazzire che per vera utilità). Io mangiavo sempre dopo tutti gli altri prigionieri, perché oggi sarebbe dovuto essere diverso?
    Buongiorno Charles. Stai bene?
    Ovviamente non mi rispose ma emise un piccolissimo sorriso gentile. Io ero stata educata a salutare sempre.
    Posso chiederti perché oggi vado in mensa così presto?
    Mi alzai e lisciai i pantaloni larghi e la camicia coordinata. La mia divisa era blu notte, di un colore diverso perché... ma chi se ne importa del perché. Sempre dentro quelle quattro mura ero.
    Or...Ordini Miss.
    Potei notare quando si morse la lingua appena dopo avermi chiamato Miss. Gli era scappato. Io, come tutti gli altri, eravamo "Detenuti" a volte "Feccia". raramente mi chiamavano con il mio cognome. Forse faceva ancora alzare le orecchie ai nuovi: i FitzGerald non erano propriamente gente di second'ordine.
    Sistemai il libro che stavo leggendo e mi misi davanti al ragazzo che non aveva più di 25 anni con le mani sporte in avanti.
    Venni ammanettata con quei braccialetti speciali che avevano il potere di bloccare la nostra mutazione temporaneamente e sentii, come sempre, le forze venire un po' meno. Ma ormai erano anni che subivo il trattamento, non mi scomposi e seguii l'uomo.
    Percepii un gran vociare già prima di arrivare alla mensa. Non ero abituata a quel caos mi diede quasi "fastidio".
    Solitamente sentivo i miei passi rimbombare nel corridoio, quel giorno, invece, li percepivo appena dato il chiacchiericcio proveniente dal refettorio.
    Varcai la soglia della mensa e mi fermai ad osservare. Erano tanti i mutanti presenti, parlavano tra loro, ma si vedeva che erano deboli. Charles mi tolse le manette ma sentii comunque i miei poteri debolissimi. Alzai gli occhi e notai i neon: ghignai. Umani furbi o che si credono tali?
    La mia cella non aveva quei neon essendo completamente ovattata dal mondo esterno e protetta da qualsiasi potere mutante, ma in quegli spazi aperti, il controllo era tutto.
    Sentii una spinta leggera sulla schiena e feci qualche passo in avanti. Non mi guardai attorno più di tanto, anzi. Tenni la testa alta ed avanzai fino alla fila per prendere da mangiare. Notai come la mia "divisa" spiccasse: evidentemente ero l'unica in isolamento, o meglio, ero l'unica in isolamento a cui quel giorno era permesso di pranzare con gli altri.
    Presi il mio vassoio mentre sentivo gli occhi di varie persone su di me e mi sedetti ad un tavolo laterale, vuoto.
    Non avevo amici lì dentro, non avevo conoscenti. Avevo me stessa, il mio cervello e i miei poteri. Poteva bastare.






     
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    Mensa, un altro posto di quell'enorme complesso di neon artificiali, color verde lime che spiccava sulle pareti altrimenti metalliche, in un bzzz persistente che oramai sfuggiva all'udito di avvezzi prigionieri e guardie, ma non a me, piccola ragazzetta giunta in quel posto da poco tempo. O almeno così mi sembrava: che il tempo mai fosse trascorso, che fosse tutto nuovo come il primo giorno, come se davvero il Saint Stan potesse sfuggire a qualsiasi logica umana, persino il meccanico scandirsi di dì e notte, settimane e mesi.
    Ed infatti cosa c'era di umano in quel posto di torture, silenzio e rigore di passi meccanici, quasi dispotici accompagnati da fedeli manganelli? Nulla, se non il mio sguardo di poco più che bambina, di prigioniera docile mai ribellatasi alla prigionia, perché chi come me conosce il futuro sa che ciò che è già deciso non si può cambiare, ma è ineluttabile come lo stesso passato. Non ero una persona rassegnata, semplicemente i miei occhi vedevano oltre quello che le comuni persone conoscevano, erano proiettati in avanti e non avrei mai più commesso l'errore di sfidare ciò che già sapevo dovesse accadere, come avevo fatto tentando il suicidio. Cosa avevo guadagnato? Solo dolore e cicatrici ai miei esili e piccoli polsi, nient'altro.
    Ero sola quel giorno, non sapevo dove fosse Bartleby, supponevo si fosse cacciato in qualche guaio, lui, che ribelle combatteva il destino tutti i giorni quando io lo accettavo passivamente. Probabilmente era in giro con la ragazza bionda, una mutante con cui non avevo mai parlato, ma che intuii dovesse avere qualcosa che io non possedevo. E forse la invidiavo, forse ero semplicemente gelosa della grinta di tutti loro e di come riuscissero ad alzare la cresta, ostinati, contro ciò che non sarebbe cambiato. Non per il momento.
    Sospirai, mettendomi in fila per prendere qualcosa da mangiare. Non avevo molta fame da quando stavo al Saint Stan, come potevo? La luce mi sfibrava, mi impallidiva e consumava dall'interno. Nessuno ha voglia di mangiare quando è malato, ed io sentivo il mio minuto corpo fragile, quasi fosse il ritratto della mia stessa indole cosparsa di nei: fra-gi-le. Non per questo meno intensa, non per questo meno vera; solamente... diversa. Come testimoniava il laccetto nero che avevo al collo, l'unico oggetto personale che mi fosse stato concesso dalla guardia buona, il signor Dawson, che spesso avevo pensato ad un Gigante di cui io ero l'insolita bambina.
    Una prigioniera diligente e sempre composta, ecco a voi tutti Kaya Runciter. Non per questo una vinta, non per questo sottomessa: solo ribelle dall'interno, in modi che per gli altri forse erano difficili da capire.
    Arrivò così la ragazza dai rossi capelli e gli occhi grandi, verdi. Notai la divisa che spiccava, di colore differente, su tutte le altre nostre. Compresi cosa significasse il guizzo di colore che avevo sognato il giorno prima e compresi subito in quell'istante che quell'incontro dovesse conservare un qualche tipo di importanza per il mio futuro.
    Afferrai una grossa mela rossa ed un cartone di latte freddo, una scelta insolita per un pranzo, ve lo concedo e poi mi diressi verso il tavolo laterale in cui lei era seduta. Mi misi accanto alla rossa, apparentemente sembrava non avermi notata, ma io girai il capo dai capelli corti e la frangetta inquietante verso di lei, incuriosita.

    Come mai hai la divisa diversa? Mi piace quel colore...

    Scusami il ritardo T_____T
    Kaya è... strana. Perdona i suoi svarionamenti se puoi xD
     
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    Masticavo svogliatamente quell’intruglio strano che avevo nel piatto senza, davvero, capire cosa fosse e che sapore avesse.
    I primi periodi al Saint Stan erano stati di ambientamento: abituata alla ricchezza, alle molteplici possibilità, agli innumerevoli spazi, agli infiniti doni che la mia posizione portava, essere rinchiusa in quattro mura con una sbobba insapore tre volte al giorno, non era stato facile.
    Eppure, grazie alla mia forza di volontà, e a nient’altro, ero sopravvissuta. Avevo passato le prime settimane a piangere nel cuscino della mia cella, sentendo i miei poteri alienarmi perché impossibilitati nell'esprimersi, eppure avevo resistito. Avevo tirato fuori quella caparbietà, quel coraggio e quella storicità tipici della mia famiglia.
    Rimasi con la forchetta a mezz'aria per qualche secondo pensando alla mia famiglia. Tendevo a soffermarmi il meno possibile sulle loro immagini per evitare di sentirmi nuovamente schiacciata, abbattuta, triste. Erano due anni e mezzo che non li vedevo, due anni e mezzo che non solo ero in isolamento dai miei colleghi detenuti, ma mi era impossibile ricevere una qualsiasi visita. E qual era il mio primo contatto con il mondo esterno? Una mensa affollata di mutanti indeboliti, stremati, annientati. Che bei momenti.
    Finii la “portata principale” ed osservai il vassoio bianco su cui spiccava una mela verde. Amavo l’acidità di quel frutto. La scelta della frutta era praticamente l’unico vezzo culinario che avevamo. Se pensavo ai ristoranti frequentati nella mia vita precedente mi veniva da ridere.
    Presi il pomo tra le mani e lo pulii delicatamente in un piccolo tovagliolo di carta. Avrei preferito tagliarlo a spicchi, pelarlo e solo dopo mangiarlo con eleganza, ma eravamo in galera, non in un ristorante da tre stelle Michelin. Quando le mie labbra sentirono la buccia liscia della mela, le mie orecchie percepirono un intrusione nel mio campo di solitudine.
    Spostai lo sguardo al mio fianco e notai un ragazzina seduta vicino a me, con un caschetto scuro, magrissima, quasi impalpabile, ma con due occhi così profondi che avrei potuto caderci dentro se non fossi stata attenta. Riavvolsi il nastro e riascoltai ciò che aveva detto.
    Isolamento. Questa è la divisa di chi è in isolamento.
    Il che è un paradosso dato che sto chiacchierando con te.

    Non c’era acidità o fastidio nella mia voce, quanto, piuttosto, semplice razionalità.
    Stavo ancora cercando di capire per quale astruso motivo fossi lì, in quel momento, con tutti i miei compari a mangiare in compagnia. Ed io non amavo non capire.
    Addentai finalmente la mela e il sapore acido del frutto invase le mie papille gustative che si risvegliarono dopo quel pranzo così poco piacevole. Solo dopo un po’ mi voltai di nuovo, poggiai il gomito sul tavolo (cosa che mai avrei fatto fuori da quella gabbia di matti in cui ero) e di nuovo guardai quella che altri non era che una ragazzina. Possibile che qualcuno di così piccolo e fragile potesse essere un pericolo per gli esseri umani? Dov’era la loro “umanità” quando impedivano ad una giovane di vivere la sua vita con piena libertà?
    Come ti chiami ragazzina?
    In un contesto più adatto alla mia persona e al mio cognome la domanda corretta sarebbe stata “Buongiorno signorina, piacere di conoscervi ecc. ecc.”. Ma i formalismi, lì, erano totalmente inutili. Oh non andate a pensare che sia una spocchiosa snob con la puzza sotto il naso, tutt’altro. Ma ho sempre amato tanto le buone maniere, il Voi nel parlare, la regalità. Ripetevo spesso che se fossi nata nell’800 avrei vissuto meravigliosamente in mezzo a tutti quei galantuomini.
    Mi concentrai sulla mia compagna di tavolo e continuai a mangiare il quel dolciastro succo verde acido che solleticava il palato con il suo gusto intenso mentre memorizzavo ogni singolo tratto del viso di quella giovanissima donna. Chissà qual era il potere che l’aveva portata in quel posto infame.











     
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    Ero incuriosita da quella ragazza coi capelli rossi, di un colore non vicino al ramato come le tipiche capigliature irlandesi, ma più scuro, avvolgente. Mi ricordò Jean Grey, una mutante di cui mi avevano parlato quando ero piccola i miei genitori, mostrandomi una sua foto probabilmente presa da un annuario passato della Xavier's School.
    La prigioniera possedeva lo stesso colore di capelli e lo stesso candore del viso dell'eroina, anche se gli occhi, quelli no, erano diversi: sgranati, azzurro vivido, molto tondi ed espressivi; nonostante certo non si potesse cogliere molta gioia dentro di essi in quell'ambiente. Mi strinsi nelle spalle, allungando una mano per afferrare il mio cartone del latte ed aprirlo.
    Del resto chi è felice qui dentro? Pensai. Solo io, talvolta, dopo che qualche sogno positivo veniva ad allietarmi nella notte fredda all'interno della mia cella, o dopo che incontravo Robert Dawson, il poliziotto buono. I nostri incontri si erano fatti sempre più rari, però, ed una luce di dolore animava il suo sguardo quando incontrava la mia figura. In fondo deve sentirsi deluso per ciò che ho fatto, ha riposto fiducia in questa piccola bambina dalla dritta frangia corvina ed in cambio io ho cercato di uccidermi. Forse mi sta evitando... Forse sotto sotto Kaya Runciter è anche questo, una manipolatrice che per ottenere qualcosa è disposta ad impersonare ruoli che non le appartengono. Quest'idea di me da un lato mi inorridiva, dall'altro quasi si poteva dire mi inebriasse; dopotutto avevo sempre desiderato affermare la mia indole ri-bel-le. Fragilità non significava debolezza. Fragilità era purezza, certo, ma poteva essere anche oscurità.

    Oh - esclamai quando la prigioniera più grande mi rispose - Mi dispiace. È tanto brutto l'isolamento?

    C'era sempre un tono gentile, innocente sul fondo delle mie parole. Non era edulcorato, non si trattava di finzione, credetemi. Kaya Runciter poteva essere molte cose, ma doppiogiochista mai. Non faceva parte del mio carattere eludere le impressioni altrui, il mio sguardo velato viveva il futuro e rimandava indietro nel presente un'immagine fantascientifica, artificiale, come se non fossi mai stata umana. Come se fossi un androide che sogna pecore elettriche, giusto per citare il titolo di uno dei miei libri preferiti. Buffo che mi chiamassi Runciter, a ben pensarci, proprio come uno dei personaggi di Philip Dick. Forse tutto quello che stavo vivendo era irreale, ed io non esistevo davvero, ma nascevo solamente dalla penna di uno scrittore. Ecco, mi piaceva vederla in quel modo: io non ero realmente una prigioniera, io ero la protagonista di un romanzo di fantascienza. Non potevo fuggire dal Saint Stan perché la prigione era l'ambientazione della mia storia... È molto più semplice vederla così, non trovate?
    Immaginare ti aiuta a sopravvivere e quello, perlomeno, le assillanti luci verde acido non potevano togliermelo.

    Kaya Runciter, matricola B-K402. Ma puoi vederlo dal mio cartellino, vedi? - le risposi, indicando il bedge affisso sulla mia divisa con la mano sottile - Anche se è bello pensare di non essere in prigione e chiederlo al posto che leggerlo. Tu come ti chiami?

    Terminai, sorridendole con quel mio modo di fare etereo, inconsistente. Avrei potuto anche io aguzzare la vista e leggere il cartellino identificativo della rossa ragazza, che tutti noi eravamo costretti ad indossare in ogni momento della giornata. Ma era tanto sbagliato provare a fingere, in quel luogo artificiale e costruito, una conversazione normale, ogni tanto?


    Edited by Lato-Tibby - 21/7/2016, 10:47
     
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    Era strano vedere tanta innocenza là dentro. Innocenza, sì, perché la giovane ragazzina mora davanti a me tutto poteva essere fuorché un personaggio negativo. Sembrava vivere in un mondo tutto suo fatto di chissà quali misteri, chissà quali sogni e chissà quali speranze. Era difficile rimanere se stessi in quel posto, ma qualcuno, qualche folle sognatore, ci riusciva. Io, probabilmente, mi stavo perdendo molto più di quanto pensassi.
    Continuai a mangiare la mia mela, cercando di tenere a freno i miei poteri. Avevo imparato, col tempo, che più lì controllavo meno soffrivo sentendomeli schiacciati dai controlli della Prigione. Quei neon servivano per non farli uscire allo scoperto, ma se prima io lavoravo su me stessa potevo vivere quasi "normalmente": un paradosso. Ma la mia vita era un paradosso continuo.
    Osservai le labbra della giovane ragazza al mio fianco studiandone i tratti più fini, percependo, lontano, impalpabilmente, l'acqua che scorreva nel suo corpo potente e vibrante. Una fitta di emicrania mi ricordò dov'ero e come dovevo agire. Scossi il capo e strinsi gli occhi prima di ritornare a concentrarmi sulla ragazza.
    Non dispiacerti...
    È meno peggio di quanto si immagini.

    Feci un ghigno piccolo, uno di quelli che usavo tanto nell'alta società e che spesso mi avevano contraddistinta. Uno di quei gesti che non facevo da tempo.
    Quando si ha un buon libro e un buon cervello non serve tanto altro.
    Il cinismo ormai era diventato il mio migliore amico.
    Tuttavia dopo un po' di anni fa anche piacere fare due chiacchiere con qualcuno.
    Sorrisi leggermente, non uno di quelli che arrivava agli occhi, ma neanche un sorriso falso o ipocrita.
    Quella giovane si era avvicinata a me senza chiedere nulla se non di essere accolta come una nuova conoscenza. Aveva fatto quello che, nessun altro, fino a quel momento, aveva provato a fare.
    Ascoltai la sua presentazione e annuii memorizzando immediatamente nome e cognome: avevo una memoria eccellente per questo tipo di dati.
    Era molto profonda, quasi saggia. Immaginai che avesse un qualche potere legato alla preveggenza o al controllo mentale: era troppo serafica e seria per avere non più di 14-15 anni.
    Io leggo i badge esclusivamente delle guardie, Kaya. Non amo scoprire i nomi dei miei interlocutori da un pezzo di plastica, non se li reputo al mio livello.
    Ed era vero. Probabilmente odioso e forse un po' snob, ma io ero anche quella: diretta, poco incline al buonismo o alla diplomazia eccessiva. Per questo, pensai, apprezzavo tanto Il Gran Bastardo. Eravamo molto più simili di quanto sembrasse.
    Allungai la mano verso di lei e le strinsi la sua appena me la porse.
    Deirdre FitzGerald, molto piacere.
    Era sicuramente americana: l'accento, la postura, anche il modo di gesticolare erano segni evidenti del suo essere statunitense. Noi del vecchio mondo ce ne accorgevamo subito. Mentre ragionavo sulla sua provenienza finii la mela, poggiai il torsolo sul vassoio che avevo davanti e mi pulii la bocca con un tovagliolo. I miei gesti erano dati dall'educazione e dall'abitudine di una vita: avrei potuto cenare in un cinque stelle o in una mensa come quella del Saint Stan ma non avrei mai perso il mio aplomb.
    Sei particolare Kaya.
    Lo pensavo davvero.
    Avevo ripetuto il nome perché amavo porre l'attenzione su di esso. Il nome era ciò che ci rappresentava, era una parte di noi. Non bisognava mai dimenticarselo, come non bisognava mai dimenticarsi di se stessi.
    Una delle cose che non amavo di questa "Resistenza" che si era formata, era proprio l'abbandono dei nomi propri con la preferenza dei "nomignoli" legati al proprio essere mutanti. Dopotutto io ero una mutante ma ero, prima di tutto, una persona.
    Da quanto tempo sei qui, Kaya?
    Mi voltai meglio, portandomi a cavalcioni sulla panca, così da avere una visuale migliore sia di lei che della sala. Non si sa mai cosa può accadere in una mensa piena di gente.






     
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    Diversi anni? Pensai, e sono sicura dovesse essersi dipinta un'espressione di stupore tra i miei occhi serafici. Schiusi appena le labbra sottili, lasciandomi assorbire dai miei pensieri. Diversi anni in isolamento, chiusi in una cella con la tavolozza dei servizi a meno di due metri dalla propria branda, bombardati dalle verdi luci acide senza alcuna compagnia se non spesse pareti di metallo e nemmeno una finestra per guardare il cielo... Dicono che i prigionieri urlino, in isolamento. Che finiscano con l'impazzire... Avevo sentito quelle parole da un gruppetto di mutanti il giorno in cui ero arrivata al Saint Stan. Forse era per il fatto che mi fossero rimaste così intensamente impresse nella memoria che mi comportavo in modo tanto diligente. Forse una parte di me non desiderava affatto finire in isolamento, nemmeno per qualche giorno.
    Osservare le persone, anche se non potevo dire di avere molti amici e quindi spesso rimanevo in disparte, mi dava comunque un certo calore; la solitudine invece mi spaventava. Era il motivo delle cicatrici che avevo ai polsi.
    Al posto di questa ragazza quante volte avrei cercato di farla finita?

    Certo... - risposi alla sua affermazione sui badge, abbassando il capo - Hai ragione, chiedo scusa.

    Mormorai, afferrando la mela e strofinandola sulla mia divisa da detenuta per pulirla. Avrei preferito sbucciarla, ma sapevo bene che era impossibile procurarsi oggetti taglienti dentro la prigione, specialmente per un "soggetto a rischio" come ero considerata io. Imprimedomi il nome della più grande mutante, tornai a guardare quegli ampi e rotondi occhi da gatta. Erano furbi, quasi indifferenti a tratti e mi chiesi come potesse essere così tranquilla dopo tutto quello che aveva passato, ma soprattutto cosa avesse fatto di tanto orribile per essere stata segregata così a lungo. Dicono anche, però, che a volte quando si è in isolamento si perde la concezione del tempo...

    Me lo dicono spesso, sai? - risposi, sempre con il mio tono serafico e vago - Che sono "particolare". Lo dicevano i miei genitori e persino la guardia che è venuta a prendermi.

    Mi strinsi nelle spalle e finalmente morsi la mia mela rossa. Storsi il naso, delusa: nonostante il colore invitante e la consistenza succosa della pasta, non era dolce, ma acerba. Come quando ti avvicini ad una costruzione e sfiorandone le pareti ti accorgi che non è vera pietra, ma solo un'imitazione di cartongesso. Allontanai lentamente il frutto dal mio visetto e lo riposi sul vassoio.
    Avrei dovuto ripiegare solamente sul latte a lunga conservazione. Un magro pasto per una magra detenuta, ma oramai era inutile farci caso: così andavano le cose al Saint Stan.

    Non lo so di preciso. Credo un anno e mezzo, forse quasi due. Ma chi può dirlo? Non ti danno le medagliette al merito per quando superi i ventiquattro mesi di prigionia qui.

    Le sorrisi macabra, sotto la mia inquietante e nera frangetta.
     
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    Quella ragazzina mi faceva tenerezza. Ed era strano. Non provavo tenerezza da mesi, anni. Era una debolezza, lo sapevo bene.
    Da quando ero stata catturata e, per sfregio, sbattuta in isolamento, mi ero imposta un'autodisciplina estremamente rigida, fatta di freddezza, cinismo, sarcasmo ed educazione, va da sé.
    Osservavo e ascoltavo i carcerieri che mi ronzavano intorno senza mai farmi condizionare dalle loro vite.
    I novellini sarebbero stati i più facili da irretire: parlavano tra di loro pensandomi troppo rabbiosa o sfinita per ascoltarli. Mi permettevano di raccogliere informazioni, dati, nomi. E, si sa, i nomi hanno grande potere.
    Mi guardai intorno cercando di cogliere la massa di umanità che si stagliava in quella prigione.
    Non devi scusarti Kaya.
    Sorrisi più dolcemente e le poggiai una mano leggera sul ginocchio.
    Non voglio insegnare niente a nessuno, ma se vuoi un consiglio mi permetto di dartelo: non permettergli di spezzarti. Usa il tuo cervello per raccogliere più informazioni possibili. Qui dentro le informazioni sono la miglior moneta.
    Avevo tenuto un tono normale, quasi divertito, abbassando impercettibilmente il volume della voce.
    Non è facile vivere qui dentro, ma ricordati che non sei soltanto una mutante, sei anche una persona, e come tale puoi sopportare tutto ciò che questi ti fanno per annientare la specialità che c'è in te.
    Avevo notato che la maggior parte dei prigionieri era decisamente giovane. Tragico. Banale quasi.
    I più piccoli erano sicuramente più facili da catturare rispetto ad adulti ben addestrati. Ricordai il giorno del mio arresto: avrei potuto fare danni e scappare, ma non volevo che si rifacessero sui miei genitori, non me lo sarei mai perdonato.
    Non mi soffermai sul loro ricordo troppo a lungo, non volevo star male più di quanto avessi voglia.
    Mi stiracchiai le braccia ed il busto prima di fare lo stesso con il capo.
    I miei poteri erano a quota -1 in quel posto fatto di neon ma sentivo un minimo di linfa mutante scorrere ancora. Avrei potuto creare qualche fastidio alle guardie, ma non era il caso: non solo avrei rischiato che scoprissero esattamente il mio potere, ma avrei ottenuto una qualche punizione poco piacevole. No. Non era ancora il momento.
    Non passerai tutta la vita qui dentro Kaya.
    La mia non era una di quelle frasi fatte che si dicono tanto per tranquillizzare la gente. Ne ero convinta. Forse una squadra della Xavier o un gruppo di quella fantomatica resistenza... Ero certa che prima o poi qualcuno si sarebbe ricordato dell'esistenza di noi poveracci, soprattutto dei giovanissimi mutanti che avevo davanti.
    Vidi passare una guardia che faceva la ronda e feci un mezzo sorriso.
    Ciao Harry.
    Posso chiederti una cortesia?

    Informazioni: nome, posizione, carattere. Harry non aveva più di 25 anni, era gentile, educato e lavorava in quel bel posticino da meno di tre mesi.
    Si volò verso il nostro tavolo e fece un sorriso piccolo piccolo, quasi invisibile.
    Cosa vuoi.....pr-prigioniera?
    Oh le apparenze. Solitamente si fermava anche a chiacchierare, ma lì non poteva certo fare chissà che; era già un gesto gentile il fatto che non mi avesse chiamato col numero di matricola.
    Avrei bisogno di parlare con Kane. Potresti farglielo sapere?
    La seconda parte l'avevo quasi sussurrata. Non era buona cosa farsi sentire a voce troppo alta. Anche i muri avevano orecchie e solo alcuni di essi erano positivi.
    Harry annuì appena prima di proseguire senza rispondere.
    Tornai a concentrarmi sulla mia commensale e le sorrisi.
    Perdona l'interruzione, ma era l'unico momento....
    Da dove vieni?

    Chissà cosa stavano provando i suoi genitori in quel momento, chissà quanto mancava loro la splendida giovane che aveva davanti. Se lei fosse stata madre e le avessero strappato un figlio, probabilmente avrebbe dato di matto.












     
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    Quando la mano della mutante più grande si poggiò sulle mie ginocchia magre non potei evitare di sussultare appena. I contatti tra prigionieri erano proibiti all'interno del Saint Stan, come credo sia da regola in ogni penitenziario di massima sicurezza, ma la verità ancor più cruda era che, anche se ci fossero stati consentiti, molti di noi avrebbero comunque continuato ad evitarli dagli altri e a negarli loro stessi per primi.
    La prigionia di toglieva vita, desiderio di comunicare, ti toglieva gioia. Da molto tempo non conoscevo il significato di una carezza tra i miei capelli, o di un abbraccio. Quasi non ricordavo che sensazione derivasse dal contatto umano, era come se avessi dimenticato di essere imparando invece a non-essere.
    Mi guardai circospetta attorno, allarmata ed impaurita al pensiero che le guardie potessero accorgersi della mano di Deidre, ma nessuno sembrò darci peso, anzi... Sembrava che la mutante dai grandi occhi verdi riuscisse, in un certo modo, a imporre alle guardie di ignorarla, a ricattarle...
    L'Informazione è Potere, ripetei mentalmente e d'un tratto compresi che forse era proprio la capacità persuasiva di Deidre Fitzgerald ad esserle costata l'isolamento.
    "Non permettergli di spezzarti", ero ancora in tempo per questo?

    Io ci proverò, ma... Non è così semplice... Nulla è semplice.

    Le risposi, abbozzando ad un sorriso malinconico. La sicurezza della Fitzgerald mi rincuorava, quel suo affermare che non avrei passato il resto dei miei giorni in quel penitenziario verde acido ed impersonale tanto quanto crudele.
    Ma Kaya Runciter conosceva molto bene come funzionava il futuro, io conoscevo il tempo e, purtroppo, sapevo che nulla all'infuori delle mie visioni poteva esser dato per certo. Da quando mi trovavo in quelle celle non avevo avuto la minima speranza dai miei sogni: non un piccolo indizio che potesse promettermi di nuovo la libertà. Ed una ragazzina eterea ed inevitabile come me, non poteva certo affidarsi alla speranza.
    Non potevo nutrirmene o altrimenti sarei morta davvero, e questa volta nessuno sarebbe stato in grado di salvarmi. Non facevo progetti e semplicemente Stavo: sospesa in quella condizione, non spezzata, ma innegabilmente piegata.
    Sgranai gli occhi attonita dopo aver assistito al siparietto tra la mutante appena conosciuta e la giovane guardia. Mi sporsi in avanti verso di lei guardandola come se fosse un'aliena.

    Tu... hai chiamato per nome una guardia... - commentai ammirata - A nessuno è permesso farlo! - esclamai, sempre in tono basso seppur sorpreso. - S...scusa, è che sono stupita... Comunque io vengo da New York City. Tu?

    Scusa il ritardo!
     
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