Bon Appétit

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    Deirdre C. FitzGerald -
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    « Dio è nella pioggia. »


    Masticavo svogliatamente quell’intruglio strano che avevo nel piatto senza, davvero, capire cosa fosse e che sapore avesse.
    I primi periodi al Saint Stan erano stati di ambientamento: abituata alla ricchezza, alle molteplici possibilità, agli innumerevoli spazi, agli infiniti doni che la mia posizione portava, essere rinchiusa in quattro mura con una sbobba insapore tre volte al giorno, non era stato facile.
    Eppure, grazie alla mia forza di volontà, e a nient’altro, ero sopravvissuta. Avevo passato le prime settimane a piangere nel cuscino della mia cella, sentendo i miei poteri alienarmi perché impossibilitati nell'esprimersi, eppure avevo resistito. Avevo tirato fuori quella caparbietà, quel coraggio e quella storicità tipici della mia famiglia.
    Rimasi con la forchetta a mezz'aria per qualche secondo pensando alla mia famiglia. Tendevo a soffermarmi il meno possibile sulle loro immagini per evitare di sentirmi nuovamente schiacciata, abbattuta, triste. Erano due anni e mezzo che non li vedevo, due anni e mezzo che non solo ero in isolamento dai miei colleghi detenuti, ma mi era impossibile ricevere una qualsiasi visita. E qual era il mio primo contatto con il mondo esterno? Una mensa affollata di mutanti indeboliti, stremati, annientati. Che bei momenti.
    Finii la “portata principale” ed osservai il vassoio bianco su cui spiccava una mela verde. Amavo l’acidità di quel frutto. La scelta della frutta era praticamente l’unico vezzo culinario che avevamo. Se pensavo ai ristoranti frequentati nella mia vita precedente mi veniva da ridere.
    Presi il pomo tra le mani e lo pulii delicatamente in un piccolo tovagliolo di carta. Avrei preferito tagliarlo a spicchi, pelarlo e solo dopo mangiarlo con eleganza, ma eravamo in galera, non in un ristorante da tre stelle Michelin. Quando le mie labbra sentirono la buccia liscia della mela, le mie orecchie percepirono un intrusione nel mio campo di solitudine.
    Spostai lo sguardo al mio fianco e notai un ragazzina seduta vicino a me, con un caschetto scuro, magrissima, quasi impalpabile, ma con due occhi così profondi che avrei potuto caderci dentro se non fossi stata attenta. Riavvolsi il nastro e riascoltai ciò che aveva detto.
    Isolamento. Questa è la divisa di chi è in isolamento.
    Il che è un paradosso dato che sto chiacchierando con te.

    Non c’era acidità o fastidio nella mia voce, quanto, piuttosto, semplice razionalità.
    Stavo ancora cercando di capire per quale astruso motivo fossi lì, in quel momento, con tutti i miei compari a mangiare in compagnia. Ed io non amavo non capire.
    Addentai finalmente la mela e il sapore acido del frutto invase le mie papille gustative che si risvegliarono dopo quel pranzo così poco piacevole. Solo dopo un po’ mi voltai di nuovo, poggiai il gomito sul tavolo (cosa che mai avrei fatto fuori da quella gabbia di matti in cui ero) e di nuovo guardai quella che altri non era che una ragazzina. Possibile che qualcuno di così piccolo e fragile potesse essere un pericolo per gli esseri umani? Dov’era la loro “umanità” quando impedivano ad una giovane di vivere la sua vita con piena libertà?
    Come ti chiami ragazzina?
    In un contesto più adatto alla mia persona e al mio cognome la domanda corretta sarebbe stata “Buongiorno signorina, piacere di conoscervi ecc. ecc.”. Ma i formalismi, lì, erano totalmente inutili. Oh non andate a pensare che sia una spocchiosa snob con la puzza sotto il naso, tutt’altro. Ma ho sempre amato tanto le buone maniere, il Voi nel parlare, la regalità. Ripetevo spesso che se fossi nata nell’800 avrei vissuto meravigliosamente in mezzo a tutti quei galantuomini.
    Mi concentrai sulla mia compagna di tavolo e continuai a mangiare il quel dolciastro succo verde acido che solleticava il palato con il suo gusto intenso mentre memorizzavo ogni singolo tratto del viso di quella giovanissima donna. Chissà qual era il potere che l’aveva portata in quel posto infame.











     
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